Leucemia linfatica cronica: con venetoclax-obinutuzumab in prima linea oltre metà dei pazienti ancora in remissione dopo lo stop al trattamento
In pazienti con leucemia linfocitica cronica non trattati in precedenza, tra cui anche pazienti ad alto rischio, i risultati a lungo termine dello studio di fase 3 CLL14, presentati di recente a Francoforte al congresso della European Hematology Association (EHA), confermano i benefici a lungo termine del trattamento di durata fissa (un anno) con la combinazione venetoclax più obinutuzumab, con il quale si è osservata una riduzione del 60% del rischio di progressione o morte rispetto al trattamento con clorambucile più obinutuzumab.
Inoltre, 5 anni dopo aver completato il trattamento con venetoclax più obinutuzumab oltre la metà dei pazienti era ancora in remissione e oltre il 60% non aveva ancora necessitato di un trattamento di seconda linea.
I benefici, ha riferito l’autore principale dello studio, Othman Al-Sawaf, dell’Università di Colonia, sono stati riscontrati in tutti i sottogruppi, compresi i sottogruppi di pazienti ad alto rischio, come quelli portatori di mutazioni di TP53 e quelli con IGHV non mutate.
Lo studio CLL14
CLL14 (NCT02242942) è un trial multicentrico internazionale, randomizzato, in aperto, in cui si è confrontato il trattamento di durata fissa con la combinazione venetoclax-obinutuzumab rispetto a clorambucile-obinutuzumab in 432 pazienti con leucemia linfatica cronica naïve al trattamento e che presentavano un punteggio dell’indice di comorbilità sulla base della Cumulative Illness Rating Scale (CIRS) superiore a 6 e/o una clearance della creatinina inferiore a 70 ml/min.
I partecipanti sono stati assegnati secondo un rapporto 1:1 al trattamento con 6 cicli di venetoclax e obinutuzumab seguiti da altri 6 cicli di venetoclax, oppure 6 cicli di clorambucile e obinutuzumab seguiti da ulteriori 6 cicli di clorambucile, per un totale di un anno di trattamento.
La sopravvivenza libera da progressione (PFS) rappresentava l’endpoint primario dello studio, mentre fra gli endpoint secondari figuravano il tasso di risposta, il tasso di non rilevabilità della malattia minima residua (MRD) e la sopravvivenza globale (OS).
Caratteristiche dei pazienti bilanciate nei due bracci
Le caratteristiche di base dei pazienti erano ben bilanciate tra i due bracci di trattamento.
Nel braccio assegnato alla combinazione venetoclax-obinutuzumab, l’età mediana era di 72 anni, il punteggio mediano della CIRS era pari a 9 (range: 0-23) e la mediana della clearance della creatinina stimata era pari a 65,2 ml/min. Erano rappresentati tutti gli stadi di malattia secondo la classificazione di Binet (A: 21%; B; 35%; C: 44%), così come le categorie di rischio di sindrome da lisi tumorale (TLS) (basso: 13%, intermedio: 64%; alto: 22%).
Nel braccio di confronto, l’età mediana era di 71 anni, il punteggio mediano della CIRS era pari a 8 (range: 1-28) e la mediana della clearance della creatinina stimata era pari a 67,4 ml/min. La presenza in percentuale degli stadi di malattia secondo Binet era simile a quello del braccio assegnato alla combinazione con venetoclax (A: 20%; B: 37%; C: 43%) così come quella delle tre categorie di rischio di TLS (basso: 12%; intermedio: 68%; alto: 20%).
La maggior parte dei pazienti aveva IGHV non mutate (rispettivamente, 61% e 59%), mentre il 12% in entrambi i bracci presentava una delezione del cromosoma 17p e/o mutazioni di TP53, e circa un terzo (34% e 36%) solo una delezione del cromosoma 13q. Inoltre, erano presenti in misura simile nei due bracci pazienti portatori di una delezione del cromosoma 11q (17% contro 18%) e la trisomia 12 (17% contro 19%). Infine, il 24% e il 20% dei pazienti non presentavano anomalie citogenetiche.
PFS di oltre 76 mesi con venetoclax obinutuzumab
La mediana di PFS è risultata significativamente superiore nel braccio trattato con venetoclax più obinutuzumab rispetto al braccio assegnato a clorambucile più obinutuzumab: 76,2 mesi contro 36,4 mesi (HR 0,40; IC al 95% 0,31-0,52; P < 0,0001); inoltre, il tasso di PFS a 6 anni è risultato più che raddoppiato nel braccio trattato con la combinazione con venetoclax: rispettivamente, 53,1% contro 21,7%.
Indipendentemente dal tipo di trattamento effettuato, le mediane di PFS sono risultate superiori nei pazienti che non presentavano mutazioni di TP53 o delezioni di 17p. Nel braccio trattato con venetoclax, infatti, la mediana di PFS è risultata di 76,6 mesi nei pazienti senza mutazioni di TP53 o delezioni di 17p contro 51,9 mesi nei pazienti che presentavano queste anomalie citogenetiche (HR 2,29; IC al 95% 1,37-3,83; P = 0,001), mentre nel braccio trattato con clorambucile, le mediane di PFS sono risultate di 38,9 mesi e 20,8 mesi rispettivamente nei pazienti senza e con queste alterazioni (HR 1,66; IC al 95% 1,05-2,63; P = 0,03).
Allo stesso modo, a prescindere dal tipo di trattamento effettuato, gli outcome di PFS sono risultati migliori nei pazienti con IGVH mutate. Infatti, nel braccio trattato con venetoclax e obinutuzumab la PFS mediana non è stata raggiunta (NR) nei pazienti con IGHV mutate, mentre è risultata di 64,8 mesi in quelli con IGHV non mutate (HR 0,38; IC al 95% 0,23-0,61; P < 0,001). Nel braccio di confronto, la PFS mediana è risultata rispettivamente di 62,2 mesi e 26,9 (HR 0,33; IC al 95% 0,23-0,47; P < 0,001).
Inoltre, in un’ analisi multivariata, è stato osservato che la presenza di mutazioni di TP53/ delezioni di 17p non sembra influenzare negativamente la PFS nei pazienti con IGHV mutate trattati con venetoclax. Infatti, in questi pazienti i tassi di PFS a 6 anni sono risultati del 47,2% nel sottogruppo senza mutazioni di TP53/ delezioni di 17p e 31,3% in quello portatore di queste anomalie citogenetiche.
L’analisi multivariata ha anche evidenziato che nei pazienti trattati con venetoclax più obinutuzumab, una dimensione massima dei linfonodi di 5 cm o più, la presenza di IGHV non mutate e la presenza di mutazioni di TP53/delezioni di 17p rappresentano fattori prognostici negativi indipendenti per la PFS.
Con venetoclax-obinutuzumab ritardato il ricorso a terapia di seconda linea
Il tempo al trattamento successivo o al decesso (TTNT) è risultato più lungo con venetoclax più obinutizumab rispetto alla combinazione di confronto. Infatti, la mediana del TTNT non è stata raggiunta nel braccio trattato con la combinazione con venetoclax mentre è risultata di 52,9 mesi in quello trattato con la combinazione con clorambucile (HR 0,44; IC al 95% 0,33-0,58; P < 0,0001).
Inoltre, i pazienti che a 6 anni erano ancora vivi e non avevano avuto necessità di una terapia di seconda linea sono risultati rispettivamente il 65,2% contro 37,1%.
In entrambi i bracci, ha riferito Al-Sawaf, la maggior parte dei pazienti è stata trattata in seconda linea con agenti mirati, anche se dal 23% al 30% è stato trattato con la chemioterapia o la chemioimmunoterapia. Gli agenti più utilizzati in seconda linea sono stati gli inibitori di BTK (rispettivamente nel 59% e 53,4% dei casi), seguiti dagli inibitori di BCL-2 (rispettivamente 17,9% e 14,6% dei casi).
Con un follow-up mediano di 76,4 mesi, l’OS mediana non è stata raggiunta in nessuno dei due bracci, ma il tasso di OS a 6 anni è risultato superiore nel braccio trattato con venetoclax: 78,7% contro 69,2% (HR 0,69; IC al 95% 0,48-1,01; P = 0,052).
MRD a fine trattamento correlata con PFS e OS
Il trattamento con venetoclax-obinutuzumab si è dimostrato superiore a quello con clorambucile-obinutuzumab anche sul piano del mantenimento della profondità della risposta nel tempo.
Infatti, l’MRD, valutata nel sangue periferico mediante sequenziamento di ultima generazione (NGS), a 5 anni si è mantenuta non rilevabile, a livelli inferiori a 10-4, nel 7,9% dei pazienti trattati con venetoclax contro l’1,9% di quelli trattati con clorambucile.
Al-Sawaf ha anche spiegato che la non rilevabilità dell’MRD, e quindi la profondità della risposta, è risultata correlata con una PFS a lungo termine, evidenziando il valore prognostico dello stato dell’MRD (rilevabile o no) alla fine del trattamento. Risultati simili sono stati osservati anche per l’OS, che è risultata più breve nei pazienti con MRD rilevabile alla fine del trattamento rispetto a quelli con MRD non rilevabile. «Questi risultati evidenziano la necessità di approcci dedicati guidati dai risultati dell’MRD», ha rimarcato l’autore.
Tossicità post-trattamento rare
Per quanto riguarda la sicurezza, le tossicità post-trattamento sono state rare in entrambi i bracci, ha spiegato Al-Sawaf.
Nel braccio trattato con venetoclax, gli eventi avversi di grado 3 o superiore sono stati neutropenia (3,8%), trombocitopenia (0,5%), anemia (1,9%), neutropenia febbrile (0,9%) e polmonite (3,3%), mentre nel braccio trattato con clorambucile sono stati neutropenia (1,9%), anemia (0,5%), neutropenia febbrile (0,5%), polmonite (1,4%) e reazioni infusionali (0,5%).
Il tasso di secondi tumori maligni primari è risultato del 14,2% con venetoclax e 8,4% con clorambucile, e tra questi sono stati segnalati il melanoma (3,8% contro 1,9%), tumori solidi (8% contro 5,1%), tumori ematologici maligni (1,4% contro 0,9%) e altri tumori maligni (0,9% contro 0,5%). Tuttavia, ha rimarcato Al-Sawaf, «Non è stata osservata alcuna differenza statisticamente significativa nell’incidenza cumulativa di secondi tumori maligni primari tra venetoclax più obinutuzumab e clorambucile più obinutuzumab».
In ogni caso, ha specificato l’autore, gli sperimentatori continuano a monitorare il tasso di neoplasie secondarie.
Bibliografia
O. Al-Sawaf, et al. Venetoclax-obinutuzumab for previously untreated chronic lymphocytic leukemia: 6-year results of the randomized CLL14 study. EHA 2023; abstract S145.
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