Allarme Pfas, l’inquinante in acqua preoccupa anche in Lombardia: si registra una situazione critica tra Adda e Seveso
E’ allarme Pfas anche in Lombardia. Dei composti chimici utilizzati in campo industriale per la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili, scoperti nel tempo dannosi per l’uomo, si è parlato oggi in commissione ambiente a palazzo Pirelli. La situazione è particolarmente critica nel ‘conoide’ presente tra il fiume Serio e il fiume Adda (tra la bassa bergamasca, il cremonese e il lodigiano), dove sono stati trovati fino a 1.000 nanogrammi di sostanze inquinanti per litro nelle acque potabili di Crespiatica (Lodi), in una zona dove, come osserva Stefano Polesello dell’Istituto di ricerca sulle acque del CNR, le acque superficiali e le acque di falda hanno grossissimi scambi, soprattutto a causa dell’intensa attvità di smaltimento di rifiuti nell’area, attività che a questo punto va regolamentata.
I dati che preoccupano riguardano la correlazione tra queste sostanze (presenti anche in acque potabili) e l’insorgenza di alcune gravi patologie. Per Polesello “si deve dunque studiare la diffusione di queste sostanze allo scopo anche di cercare le sorgenti, e qui secondo me il punto fondamentale è la collaborazione tra ente e gestore e autorità competente”. Infatti, secondo il piano di sicurezza acquedottistico in vigore, come specifica l’esponente del CNR, quando “il gestore si trova a misurare la sostanza e vede che questa è presente nelle acque potabili, non deve correre solo al riparo mettendo il carbone attivo o trovando un metodo di mitigazione, ma deve trovare la collaborazione delle autorità per andare alla ricerca delle sorgenti attraverso un’indagine idrogeologica, altrimenti ovviamente questo problema continua a ripresentarsi e può anche peggiorare”.
In particolare, nella zona in questione, molto industrializzata, il problema è legato soprattutto a moltissimi impianti di trattamento dei rifiuti, perché “spesso il gestore stesso è lo stesso che gestisce gli impianti di depurazione, e riceve magari scarichi da aziende o da impianti di trattamento rifiuti, ma non riesce a trattarli perché i Pfas, sappiamo, sono sostanze che non vengono abbattute negli impianti di depurazione tradizionali”. Vengono scaricati nel fiume, “quest’ultimo usato in quell’area a scopo irriguo”.
Sul tema interviene anche Lorenzo Baio di Legambiente Lombardia, che fa un distinguo tra la situazione lombarda e quella di altre regioni come Veneto e Piemonte, dove i rilevamenti di inquinanti ‘acquatici’ sono circoscritti, a differenza di quanto accade in maniera più diffusa in Lombardia. “Abbiamo dei casi a livello nazionale molto importanti che sono puntiformi, cioè si sa più o meno in che zone agiscono delle industrie molto importanti, mentre qui- precisa- abbiamo se volete la fortuna di non avere queste grosse industrie, quindi questi grossi impatti. Ma abbiamo però un inquinamento ubiquitario, quindi i Pfas vengono trovati un po’ dovunque, e questa è la cosa che ci preoccupa”.
Già, perché se si studia la natura di tali sostanze perfluoroalchiliche, nomenclate con l’acronimo inglese Pfas che sta per ‘perfluorinated alkylated substances’, si scopre che sono nate negli anni ’40 come composti chimici detti ‘di sintesi’ e annoverano tra le proprie fila oltre 4.000 sostanze appartenenti a questa famiglia, molto utilizzate nell’industria e soprattutto resistenti ai maggiori processi naturali di degradazione grazie alla presenza di legami molto forti tra atomi di fluoro e carbonio, caratteristica quindi che le rende praticamente ‘eterne’, dunque soggette all’accumulo.
“E’ vero, in Lombardia non si parla ancora di concentrazioni importantissime- sottolinea Baio- e questo ci deve far riflettere perché sono sostanze che ovviamente vanno accumulandosi”. L’esponente di Legambiente fa luce inoltre sull’altra zona critica in regione oltre a quella tra Adda e Serio, ossia il bacino del Lambro, del Seveso e dell’Olona “che concentra la maggior parte delle attività industriali (prevalentemente tessili) della nostra regione”.
Le soluzioni? “Quello che chiediamo alla Regione- afferma- è aumentare l’attenzione riguardo a come viene gestito e come viene tracciato il percolato di discarica, verificare la qualità degli effluenti che vengono dagli impianti autorizzati al trattamento dei percolati, monitorare delle discariche per capire qual è la loro tenuta, monitorare anche gli aeroporti, perché per tanti anni, sono state fatte prove antincendio e ritardati di fiamma, come anche gli estintori, contenevano sostanze Pfas al loro interno“.
C’è poi il fronte sanitario, ossia lo sforzo che da anni associazioni come le mamme no Pfas stanno compiendo per far sì che vengano evidenziati i danni (gravi) che l’assunzione continuativa di tali sostanze attraverso l’acqua potabile può portare. “In tutti questi anni non solo non sono stati smentiti gli effetti sanitari, ma anzi sono stati sempre più rafforzati quelli già denunciati, rafforzandone l’intensità e la causalità, e ne sono emersi di nuovi”, afferma Francesco Bertola, medico per l’ambiente e consulente dell’associazione mamme No Pfas, audito nel corso della seduta. Per Bertola il problema dunque è la sottovalutazione del problema.
“Più si va avanti, più probabilmente è verosimile che si troveranno ancora altre correlazioni e che quelle già note saranno sempre più forti. Un esempio per tutti- osserva- il tumore al rene, che già gli americani davano come probabile link collegamento e che ha spinto lo Iarc a classificare i Pfas come cancerogeni di prima classe, quindi cancerogeni sicuri”.
Tuttavia, “nonostante si sapesse si continua a non fare niente perché si che ‘non siamo sicuri’, o che ‘è un effetto probabile, ma non c’è la certezza’. Questo però vuol dire che fra quattro-cinque o sei anni, quando ci sarà la certezza scientifica che naturalmente richiede studi epidemiologici lunghi, ci saremmo mangiati sei anni di prevenzione che avremmo potuto fare per la nostra popolazione”, aggiunge il consulente.
La questione è seria, perché secondo Bertola “non esiste una soglia minima di sicurezza” per quanto riguarda la presenza di tali sostanze nell’acqua, quindi sono invalidate anche le tesi che minimizzano i pochi nanogrammi di Pfas che talvolta si riscontrano in acque potabili.
“L’accademia americana Nasm (National academy of sport medicine, ndr) ha stabilito, per dire, in base a tutta la letteratura, che fino a due nanogrammi per millilitro di sangue si può stare abbastanza tranquilli– va avanti Bertola- ma ci sono rilevamenti oltre i 20 nanogrammi, come ci sono studi che dicono come questa oltre i 20 sia la fase della certezza, in cui esiste il rischio effettivo di sviluppare una malattia”.
La soluzione? Diffondere la cultura della analisi Pfas, monitorare la popolazione su questo aspetto. Insomma, “come uno va a farsi la glicemia o il colesterolo– che tra l’altro viene aumentato dai Pfas- così deve essere libero di andarsi a dosare i Pfas. Questa non è una prevenzione, assolutamente, ma è perlomeno un primo approccio per cominciare- conclude il consulente- affinché la gente cominci a capire con che cosa ha a che fare”.
FONTE. Agenzia di stampa Dire (www.dire.it).