Torna in libreria “La fortezza del Kalimegdan” di Stefano Terra


Dopo la prima edizione del 1956 per Bompiani torna in libreria La Fortezza del Kalimegdan di Stefano Terra (pseudonimo di Giulio Tavernari, 1917–1986)

La fortezza del Kalimegdan di Stefano Terra, romanzo originariamente uscito per l’editore Bompiani nel lontano 1956, è imperniato sulla ricerca, da parte di un giornalista, Ferrero, di un uomo, Giovanni Brua, scomparso nel pieno della Seconda guerra mondiale, ma della cui morte non si hanno notizie certe. A ingaggiarlo nella ricerca è la moglie Anna, la quale ha il sospetto che il marito sia ancora vivo. Ferrero, chiaramente alter ego dell’autore, legato alla donna dal ricordo di un amore giovanile, inviato speciale di un quotidiano torinese, sempre in giro per il mondo, in particolare nei Balcani e in Medioriente, al momento rinuncia, ma poi, di fronte alla prospettiva di fare il topo di redazione, che detesta, accetta. Si propone così come inviato a un altro quotidiano, con la scommessa di prendere idee seguendo proprio le tracce del Brua da quando, ufficiale dell’esercito italiano in Albania, oppositore del fascismo e di quella guerra assurda al fianco dei tedeschi, dopo l’8 settembre si era dato alla macchia. Le tracce di Brua porteranno Ferrero nei luoghi che hanno visto lo stesso Terra passare, prima come fuoriuscito e poi come giornalista. E anche le avventure saranno le stesse vissute dallo scrittore. Naturalmente, si viaggia molto con Terra, in questo romanzo: Grecia, Egitto, Palestina, Serbia, appunto, e lo si fa nel bel mezzo della Storia con la S maiuscola. Per altro, attraverso questa si scopre il complesso lavoro dei giornalisti, necessario a quei tempi per raccogliere, scrivere e, soprattutto, inviare le corrispondenze ai propri giornali in patria. Non era come oggi, dove tutto è più semplice con un pc o uno smartphone: allora bisognava trovare un telefono, e non era facile, contenderlo ai colleghi per dettare il “pezzo” ai dimafonisti o agli stenografi, oppure scrivere il pezzo con la macchina da scrivere su fogli di carta da infilare in una busta e, solo se non ci fosse una certa urgenza spedirlo per posta al giornale (i pezzi di colore, i reportage, avevano questa procedura, al contrario di quelle che dovevano essere le “ultime notizie”, che erano sempre quelle di uno o due giorni prima, comunque non in tempo reale come adesso).

La fortezza del Kalimegdan (anche se sarebbe stato più esatto chiamarla del Kalemegdan), che dà il titolo al romanzo di Stefano Terra si trova a Belgrado o, meglio, a Stari Grad, un comune facente parte dell’area metropolitana della capitale serba. Costituisce una sorta di cittadella, nucleo storico dell’antica Belgrado, circondata da imponenti mura risalenti al 535 per opera dell’Imperatore Giustiniano I, e da un parco, posto in cima alla collina della Šumadija, a 125 metri di altezza, affacciata sulla cosiddetta ‘Grande isola della guerra’ (Veliko ratno ostrvo) posta alla confluenza della Sava e del Danubio. Aver dato questo titolo al romanzo è stato un vezzo di Stefano Terra che credeva nel potere evocativo dei nomi delle persone e dei luoghi nei titoli dei suoi romanzi. Da qui Alessandra, Le Porte di Ferro, Albergo Minerva, Il principe di Capodistria e, dunque, anche La fortezza del Kalimegdan. Aveva in testa anche un romanzo, che non è mai stato scritto e del quale aveva, però, già il titolo: Il fiume Giordano. E questo vezzo lo usava anche se l’appiglio con la storia che raccontava era assai tenue o, come nel caso de La fortezza del Kalimegdan, ha solo un valore metaforico relativo alla città di Belgrado, dove l’avvincente storia che lo scrittore racconta ha il suo epilogo. (dalla prefazione di Diego Zandel)

Biografia dell’autore scritta da lui stesso per l’edizione Bompiani di Alessandra del 1974:

“Sono nato nel ’17 a Torino. Provavano i motori degli idrovolanti in grandi capannoni vicino al Po. Dal fronte mio padre mandava lettere dannunziane a mia madre che non le capiva e doveva cucire in casa le asole un tanto la dozzina. Negli anni Trenta eravamo alcuni ragazzi avventurieri fra i libri rubati nelle biblioteche o stanati nei depositi per il macero. Cesare Pavese e Ginzburg più anziani e seri ci consideravano delle teste accese pericolose. Uno studente lituano ci traduceva Trotzski. Delle ragazze ebree che avevano fatto il liceo, (quello vero, che per noi irregolari pareva un tempio misterioso) ci prestavano dei libri rilegati che sapevano di chanel: Dedalus, Oblomov, I demoni. Andavamo a vedere i film di Carné alle due del pomeriggio per essere soli. Anni di manifesti rivoluzionari, riunioni segrete, amori di tutta una vita, casti come la cospirazione. Dopo tanti complotti facemmo scoppiare una bomba di carta durante un’adunata oceanica. Qualcuno di Giustizia e Libertà venne dalla Francia per un incontro segreto. La guerra ci disperse. Mobilitato per l’Albania, riuscii nel ’41 a raggiungere gli antifascisti al Cairo. Collaborai a Masses. New Leader pubblicava Morte di Italiani, i miei primi racconti, e poi usciva il mio romanzo, La generazione che non perdona, mentre Rommel si attestava a El Alamein e nel cortile dell’ambasciata britannica si bruciavano i cifrari. Scomparso Enzo Sereni, liquidato il Politecnico di Vittorini, espatriai nel dopoguerra come giornalista. Parigi e poi, per 25 anni, Balcani e Levante: interviste, guerriglie, pronunciamenti. Liquidavo. Liquidavo ogni giorno la vita con un pezzo per il giornale. Alcuni anni fa, di colpo, ho ricominciato a scrivere abbandonando il mestiere. E ho scritto La fortezza del Kalimegdan e, dopo qualche anno, Calda come la colomba. Vivo in una casa dell’Attica con eucalipti, vigna adagiata sull’argilla, gatti dalla testa piccola e le volpi all’imbrunire.”