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Artrite reumatoide: i risultati di 2 nuovi e promettenti studi

Artrite acuta sindrome metabolica

Quasi il 20% dei casi di artrite reumatoide può essere classificato come “difficile da trattare”: da due nuovi studi arrivano promettenti soluzioni

Quasi il 20% dei casi di artrite reumatoide (AR) può essere classificato come “difficile da trattare”. Nel 2021, EULAR ha pubblicato una proposta di definizione di questa condizione di malattia che si basa su tre criteri: “fallimento” di almeno due terapie biologiche e/o sintetiche mirate in pazienti trattati secondo le linee guida pubblicate; segni di malattia attiva o in progressione; “percezione” da parte del paziente o del medico che i segni e i sintomi dell’AR sono “problematici”.

Si è parlato anche di questo nel corso del congresso annuale EULAR durante una sessione specifica, all’interno della quale sono stati presentati due studi che riassumiamo brevemente in questo spazio.

Primo studio: Analisi comparativa di efficacia clinica e persistenza in terapia con diversi DMARDb/DMARDts iniziati in pazienti con AR difficile da trattare (1)
Obiettivi e disegno
Gli autori di questo studio hanno esaminato i dati di un registro ceco di 8.500 pazienti con AR, estrapolando quelli relativi a 939 pazienti con AR difficile da trattare al fine di valutare gli outcome di trattamento quando questi erano stati sottoposti ad un nuovo regime di trattamento basato sull’impiego di una terapia a target.
Circa l’85% di questa coorte era costituito da pazienti di sesso femminile, in linea con le osservazioni precedenti secondo cui il sesso femminile rappresenta uno dei fattori di rischio per lo status di paziente difficile da trattare (le donne rappresentano in genere circa il 75% della popolazione generale di pazienti con AR).

La durata della malattia era in media di 14 anni e la maggior parte dei pazienti era in trattamento con diverse tipologie di farmaci non mirati per l’AR. Circa il 60% utilizzava corticosteroidi, un’indicazione che la malattia non era ben controllata.

Le valutazioni standard hanno confermato che i pazienti presentavano articolazioni persistentemente tumefatte e dolenti, con un punteggio medio di attività di malattia pari a 29,8 in base all’indice SDAI (punteggi >26 sono indicativi di attività di malattia elevata).

ll nuovo regime terapeutico impiegato prevedeva il ricorso ad un inibitore del fattore di necrosi tumorale (TNF) per 533 di questi pazienti; quanto agli altri, 147 erano passati a trattamento con  un inibitore dell’interleuchina-6 (IL-6), 133 a trattamento con un inibitore della Janus chinasi (JAK), 71 a trattamento con rituximab e 55 a trattamento con abatacept.

Risultati principali
Alla valutazione dopo 6 mesi, poco più della metà dei pazienti a cui era stato somministrato uno qualsiasi di questi agenti – tranne abatacept – aveva raggiunto la remissione o una bassa attività di malattia (SDAI da 3,3 a 11,0), un risultato considerato molto positivo.

Ma i benefici riscontrati a 6 mesi non sono risultati particolarmente duraturi: quasi la metà dei pazienti in terapia con farmaci anti-TNF, JAK inibitori, bloccanti dell’IL-6 e abatacept hanno interrotto il trattamento assegnato entro 2 anni.

La persistenza in terapia è risultata buona, invece, con rituximab (il tempo mediano di assunzione del farmaco è stato di 72 mesi) e, probabilmente, ciò si spiega con il fatto che il farmaco viene somministrato ogni 6 mesi e quindi non richiede grandi sforzi da parte dei pazienti per aderire alla terapia.

Secondo studio: analisi di fattibilità sull’impiego di blinatumomab nell’artrite reumatoide difficile da trattare (2)
Obiettivo e disegno
Di questo nuovo approccio, mutuato dall’oncologia e basato anticorpi monoclonali bispecifici (BiTE) permette ai linfociti T di distruggere i linfociti B ‘ribelli’, produttori degli auto-anticorpi responsabili della malattia, senza importanti effetti collaterali, abbiamo già riferito a maggio con la recensione del lavoro pubblicato al Gemelli dalla prof.ssa Maria Antonietta D’Agostino (3).

Blinatumomab è un BiTE più piccolo di molti anticorpi monoclonali, che si lega sia all’antigene CD19 che a quello CD3. L’effetto è quello di mobilitare le cellule T per uccidere le cellule B che esprimono il CD19, un meccanismo antitumorale per i tumori maligni a cellule B.

I ricercatori hanno ipotizzato che lo stesso effetto possa essere sfruttato per eliminare le cellule B coinvolte nelle patologie reumatologiche, tra cui l’AR.

Utilizzando, attraverso un programma di uso compassionevole, una dose di blinatumomab pari a circa un terzo di quella normalmente utilizzata in oncologia (in modo da minimizzare la sindrome da rilascio di citochine e altre tossicità), i ricercatori hanno trattato sei pazienti con AR difficile da trattare. Nelle settimane 1 e 3 sono stati somministrati cicli di quattro giorni a 9 μg/die. I livelli di proteina C-reattiva e di citochine sono aumentati durante il primo ciclo, ma sono tornati rapidamente alla normalità e sono rimasti a livelli normali durante il secondo ciclo.

I criteri di eleggibilità si basavano su (i) una diagnosi di AR secondo i criteri ACR/EULAR 2010; (ii) evidenza di coinvolgimento delle cellule B in base alla positività del fattore reumatoide (RF) o degli anticorpi anti-proteine citrullinate (ACPA) o presenza di cellule B nella membrana sinoviale; (iii) malattia attiva con un punteggio di attività della malattia DAS28> 3,2 unità; (iv) resistenza al trattamento con metotrexato e almeno tre diversi farmaci antireumatici modificanti la malattia (DMARD) di sintesi (ts) o biologici (b).

Risultati principali
Alla 12a settimana, i sintomi clinici in tutti e sei i pazienti sono praticamente scomparsi, con la conta delle articolazioni tumefatte e dolenti che è scesa quasi a zero e i punteggi DAS28 che hanno raggiunto la soglia chiave ≤2,3. Anche i biomarcatori, come il fattore reumatoide, sono diminuiti drasticamente. Inoltre, per due dei tre pazienti sottoposti a biopsie sinoviali seriali, la conta delle cellule B all’interno delle articolazioni si è azzerata al momento del follow-up e nel terzo paziente è diminuita di circa il 25%.

Pur trattandosi di uno studio esplorativo e necessitante delle dovute conferme da studi  randomizzati e controllati, i risultati, nel complesso, suggeriscono che l’approccio con farmaci bispecifici al trattamento dell’AR difficile da trattare  rappresenta una strategia terapeutica promettente, che merita di essere approfondita.

Bibliografia
1) Šenolt L, et al “Challenging the difficult-to-treat rheumatoid arthritis: comparative analysis of clinical efficacy and drug retention of subsequent biologic and targeted synthetic disease-modifying anti-rheumatic drugs” EULAR 2024; Abstract OP0137.
2) Bucci L, et al “BiTEing multi-drug resistant rheumatoid arthritis with CD19-T cell engagers” EULAR 2024; Abstract OP0193.

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