La neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche si manifesta principalmente a livello cutaneo, ma può coinvolgere anche il midollo, il fegato, la milza e il sistema nervoso centrale
Il nome della malattia sembra uno scioglilingua e l’acronimo che la identifica brevemente è ancora più difficoltoso da tenere a memoria: tutto ciò non viene in aiuto al medico che dovrebbe ricordarsi della neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche, o BPDCN. La situazione si complica se ci aggiungiamo che la patologia, negli ultimi trent’anni, ha subito varie modifiche di classificazione, essendo prima stata inclusa nel gruppo dei linfomi e successivamente in quello delle leucemie mieloidi acute, per poi essere riconosciuta, solo dal 2016, come una entità a sé stante. Infine, essa presenta caratteristiche fenotipiche che la portano a essere facilmente confusa con un discreto numero di altre condizioni. Tutto questo è più che sufficiente a giustificare l’esigenza di fare chiarezza su cosa sia e come si presenti la BPDCN.
EPIDEMIOLOGIA E CLASSIFICAZIONE
“La neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche è una patologia onco-ematologica estremamente rara e aggressiva, contraddistinta dalla comparsa, in più della metà dei casi, di lesioni sulla cute”, afferma Cristina Papayannidis, dirigente medico presso l’U.O. di Ematologia “Seràgnoli” dell’IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna e professore a contratto presso l’Università degli Studi di Bologna. “Negli anni è stata collocata all’interno di altri sottogruppi di neoplasie e questo ha inciso pesantemente sulla stima dell’incidenza che, al momento, è sottovalutata rispetto al valore reale”. Seppure non esista uno specifico Registro di patologia, i dati più aggiornati a disposizione indicano che la BPDCN rappresenta lo 0,44% di tutte le neoplasie ematologiche, ma i casi reali potrebbero essere di più poiché alcuni pazienti non riescono ad arrivare a una diagnosi precisa prima che le loro condizioni di salute degenerino in maniera irreversibile.
La prima descrizione della malattia risale al 1995, quando sulla rivista Cancer è stato pubblicato il caso clinico di un paziente di 63 anni affetto da una leucemia acuta agranulare CD4+ a cellule NK. Fino al 2001 la malattia è stata conosciuta come linfoma blastico a cellule NK e solo nel 2008 la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’ha annoverata tra le leucemie mieloidi acute. Otto anni più tardi il nome è cambiato e la BPDCN è stata classificata come una neoplasia mieloide a sé stante. Infine, nel 2022, la rinnovata classificazione dell’OMS le ha riservato uno spazio ancora differente, inserendola all’interno del gruppo delle neoplasie istiocitiche e a cellule dendritiche. Inevitabilmente, questo processo di riordinamento – che si potrebbe quasi definire filogenetico – ha limitato la possibilità di disporre di dati certi sulla malattia. “Attualmente sono riconosciuti due picchi di incidenza”, prosegue Papayannidis. “Uno in età pediatrica e l’altro in età adulta, nella fascia a partire dai 60-65 anni di età. Inoltre, è stata notata una maggiore incidenza tra il sesso maschile”.
EZIOLOGIA E SINTOMATOLOGIA
Da un punto di vista eziopatogenetico, la BPDCN prende origine dai precursori delle cellule dendritiche plasmacitoidi, prodotte nel midollo osseo e spesso rinvenibili nel sangue periferico. Il loro profilo molecolare si differenzia da quello delle altre cellule mieloidi, non presentando gli antigeni CD11b, CD11c, CD13, CD14 o CD33 tipici di questo gruppo bensì quelli più caratteristici della linea linfoide (Pre-Ta, Ig1-like 14.1 o Spi.B). Tra gli antigeni chiave nella costruzione del profilo molecolare di un particolare sottogruppo di BPDCN figurano CD123, CD4 e CD56.
“Anche dal punto di vista clinico le BPDCN costituiscono un insieme di entità tra loro piuttosto eterogenee”, riprende Papayannidis. “Fino al 90% dei pazienti può essere affetto da lesioni cutanee, singole oppure numerose, in tutte le sedi del corpo. Le lesioni possono presentarsi come noduli di colore porpora o violaceo, a livello del tronco, dei fianchi o della testa e del collo. Oppure possono essere delle macchie diffuse su tutto il corpo o, ancora, delle lesioni iper-pigmentate altrettanto differenti in termini di dimensioni, forma, colore e sede di insorgenza. È evidente come tutto ciò complichi il compito del medico, che potrebbe confondere la lesione con quella tipica del linfoma cutaneo a cellule T oppure con una localizzazione cutanea di leucemia, o ancora con una lesione orticarioide”.
Essendo una patologia rara, la BPDCN deve essere conosciuta per essere adeguatamente riconosciuta, e questo presuppone l’importanza di una corretta informazione diretta a tutti gli specialisti coinvolti, partendo dai dermatologi. “In circa la metà dei pazienti può esserci anche un coinvolgimento midollare, con alterazioni osservabili nei valori del sangue che compongono l’emocromo”, precisa l’esperta, ribadendo il ruolo prioritario di tale esame tramite cui si possono evidenziare cali nel numero dei globuli bianchi e rossi e delle piastrine. “In una percentuale minore di persone si riscontrano localizzazioni extra-nodali di malattia, epatiche, spleniche oppure a livello del sistema nervoso centrale (SNC)”. In tutti questi casi, quindi, più indizi possono contribuire a far nascere il sospetto di un tumore ematologico come la BPDCN, ma quando questa malattia si manifesta soltanto a livello della pelle crescono le probabilità che i tempi di diagnosi si allunghino: può accadere, ad esempio, che di fronte a una sintomatologia cutanea il medico di base suggerisca una visita dal dermatologo, il quale, prima di raccomandare una biopsia, a volte prova un iniziale trattamento con farmaci topici. “Ciò accresce il rischio di progressione della malattia, che può finire per coinvolgere anche altre parti dell’organismo”, dichiara Papayannidis. “Si finisce, così, per trovarsi ad affrontare un problema esteso a più sedi, tra cui magari il sistema nervoso centrale. In questo modo la malattia cresce in aggressività e curarla diventa sempre più difficile”.
UN TRATTAMENTO EFFICACE ESISTE
Fino a poco tempo fa, il trattamento della BPDCN si basava unicamente sul trapianto di cellule staminali ematopoietiche e su protocolli chemioterapici mutuati da forme di leucemia o di linfoma, protocolli che però non sono autorizzati per la patologia e che presentano un’elevata tossicità. “La BPDCN è un tumore aggressivo, paragonabile alla leucemia mieloide acuta, e richiede un trattamento intensivo”, sottolinea Papayannidis. “Negli ultimi anni, i regimi terapeutici di molte neoplasie ematologiche hanno subito modifiche e miglioramenti, e ciò ha riguardato anche la BPDCN, per la quale è stato recentemente approvato e introdotto in commercio un anticorpo specifico, il tagraxofusp, che sta cambiando la storia naturale della patologia stessa”. Tagraxofusp è un ligando dell’antigene CD123 che, negli studi in cui è stato testato, ha dimostrato robusti tassi di risposta nei pazienti affetti da BPDCN.
La disponibilità di un trattamento mirato ed efficace per la patologia rende ancora più importante arrivare alla diagnosi in maniera tempestiva, per poi procedere ad una presa in carico del paziente in un’ottica multidisciplinare che coinvolga non solo le figure dell’ematologo e del dermatologo, ma anche quelle dell’anatomo-patologo e dell’oncologo.
FONTE: OSSERVATORIO MALATTIE RARE