Un nuovo metodo potrebbe consentire di riscaldare Marte attraverso un effetto serra artificiale fino a raggiungere temperature adatte alla vita microbica
L’ambizione di riuscirci è tale che ha un verbo tutto per sé: terraformare. Vale a dire, rendere abitabile un mondo che non lo è. E il primo candidato alla terraformazione – almeno sin dagli anni Settanta, quando a proporla era niente meno che Carl Sagan – è senza alcun dubbio Marte: visto che sul Pianeta rosso di vita non se n’è mai trovata traccia, perlomeno fino a oggi, perché non passare dall’osservazione all’azione, dando una spintarella alla natura, e vedere che succede?
Per alcuni un incubo. Per altri un sogno. Per il team guidato da Samaneh Ansari (Northwestern University, Usa) ed Edwin Kite (University of Chicago, Usa) una sfida scientifica e tecnologica per la quale i tempi potrebbero essere maturi. Il metodo da loro proposto per riscaldare Marte, illustrato questo mese su Science Advances, promette di avere un’efficienza cinquemila volte superiore – dicono gli autori – ad altri basati sullo stesso approccio: innescare un effetto serra artificiale.
Come? Invece di tentare di sprigionare gas serra o di avvolgere il pianeta con un aerogel, per citare due ipotesi avanzate negli anni passati, a intrappolare il calore sarebbero nanoparticelle ingegnerizzate a partire da materiali presenti in situ e disperse in atmosfera. Nanoparticelle a base di ferro e alluminio, elementi dei quali è ricca – come ha rilevato Curiosity – la polvere marziana. Polvere che presa così com’è non sarebbe adatta allo scopo, anzi, rischierebbe di raffreddare ulteriormente il pianeta. Ma ingegnerizzate in modo opportuno così da far loro assumere una forma ad hoc, non dissimile da quella dei glitter per uso cosmetico, le particelle di polvere riuscirebbero a intrappolare il calore in uscita dal pianeta sotto forma di raggi infrarossi e a disperdere la luce solare verso il suolo, potenziando così il debole effetto serra naturale di Marte.
«Il modo in cui la luce interagisce con oggetti di dimensioni inferiori alla sua lunghezza d’onda è affascinante», nota a questo proposito Asnari. «L’ingegnerizzazione delle nanoparticelle può portare a effetti ottici che superano di gran lunga ciò che ci si aspetta convenzionalmente da particelle così piccole».
Proprio come la polvere naturale di Marte, anche queste particelle verrebbero sospinte verso l’alto, disperdendosi nell’atmosfera marziana. E stando ai modelli, ipotizzando una durata di vita media delle particelle di dieci anni, un rilascio ininterrotto con un flusso di 30 litri al secondo porterebbe a un innalzamento globale della temperatura del pianeta di circa trenta gradi, da una media di -63 °C a -33 °C, favorendo così lo scioglimento dei ghiacci. I primi effetti, sottolineano gli autori, potrebbero essere percepibili nell’arco di alcuni mesi appena. E il riscaldamento sarebbe in ogni caso reversibile, arrestandosi nel giro di pochi anni se il rilascio venisse interrotto.
Certo non stiamo parlando di condizioni adatte alla sopravvivenza di esseri umani, e in ogni caso il freddo e la mancanza di acqua allo stato liquido non sarebbero gli unici ostacoli alla colonizzazione: rimarrebbe il problema della carenza d’ossigeno, per esempio, per non parlare dei raggi ultravioletti. Ma alcuni microbi potrebbero riuscire a cavarsela, e a seguire alcune specie vegetali – e poi chissà. Non solo: come sottolinea uno dei coautori dello studio, Hooman Mohseni della Northwestern University, la ricerca è appena agli inizi. «Riteniamo che sia possibile progettare nanoparticelle con un’efficienza ancora più elevata», dice, «e in grado persino di cambiare dinamicamente le loro proprietà ottiche».
Le incognite sono però ancora numerose. Per esempio non è affatto chiara la rapidità con la quale la polvere ingegnerizzata lascerebbe l’atmosfera marziana, oppure finirebbe per riprecipitare al suolo – con la pioggia – una volta che il vapor d’acqua si condensasse attorno alle particelle. «Modellare con precisione i feedback climatici è davvero difficile», avverte Kite. «Per implementare qualcosa di simile a quanto proponiamo, avremmo bisogno di più dati sia da Marte che dalla Terra, e dovremmo procedere con lentezza e in modo reversibile, così da garantire che gli esiti siano effettivamente quelli previsti».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Feasibility of keeping Mars warm with nanoparticles”, di Samaneh Ansari, Edwin S. Kite, Ramses Ramirez, Liam J. Steele e Hooman Mohseni