Per il trattamento del lupus eritematoso sistemico ci sono un numero nutrito di studi clinici, che potrebbero presto portare a nuove scoperte per la gestione della malattia
Per il trattamento del lupus eritematoso sistemico sono in cantiere un numero nutrito di studi clinici, che potrebbero presto portare a nuove scoperte per la gestione della malattia, hanno concordato gli esperti al congresso 2024 dell’European Alliance of Associations for Rheumatology (EULAR).
«È un’area di sviluppo incredibilmente vivace» ha affermato Laurent Arnaud, professore di reumatologia all’Università di Strasburgo, in Francia, riferendosi agli almeno 17 studi di fase II e 14 studi di fase III 3 il cui avvio è previsto nei prossimi anni per valutare agenti sperimentali che prendono di mira diverse cellule immunitarie o percorsi che sono stati implicati nella patogenesi del lupus.
In una revisione sistematica pubblicata lo scorso anno scorso, Arnaud e colleghi hanno rilevato 92 agenti biologici sperimentali o nuovi agenti mirati in varie fasi di sviluppo, tra cui molecole mirate alle cellule B come ianalumab, alle plasmacellule come daratumumab e farmaci con nuovi meccanismi d’azione come KPG-818, che ha come bersaglio il complesso ubiquitina ligasi CRL4-Cereblon (CRBN) E3. I dati di fase II su questi tre candidati farmaci sono stati presentati durante varie sessioni del congresso, tutti con risultati positivi che incoraggiano il passaggio alle fasi successive di sviluppo.
Targeting delle cellule B
I farmaci che prendono di mira le cellule B sono stati in prima linea nel trattamento del lupus per diversi anni, ha sottolineato David Isenberg, professore di reumatologia allo University College London di Londra.
«È importante prendere di mira le cellule che riteniamo essere particolarmente coinvolte nel lupus, soprattutto le cellule B, ma sappiamo che queste si integrano con le cellule T, quindi qualsiasi intervento in grado di interrompere il collegamento tra la cellula T e la cellula B è probabile che sia rilevante.
Terapia CAR T per una deplezione profonda delle cellule B
Un nuovo modo per colpire le cellule B è rappresentato dalla terapia con cellule CAR T (cellule T del recettore chimerico dell’antigene). «Questa può essere realmente definita medicina personalizzata. È una terapia autologa perché le cellule T di un paziente vengono rimosse tramite leucaferesi, trasfettate con un vettore CAR T diretto contro un componente della cellula B e poi reinfuse nel paziente» ha osservato David D’Cruz, reumatologo consulente per il Guy’s and St. Thomas’ Hospital NHS Foundation Trust di Londra. «Penso che siamo vicini a una grande rivoluzione, non solo nel lupus ma anche in altre condizioni reumatiche che si sono dimostrate davvero difficili da trattare, come la sclerosi sistemica e la miosite».
«Il loro effetto di deplezione delle cellule B è molto più profondo di quello di farmaci come rituximab o al belimumab. Anche se entrambi eliminano tutte le cellule B in circolo, alcune rimangono nel midollo osseo ed è molto difficile liberarsene» ha spiegato. «La terapia CAR T sembra spazzare via tutte le cellule B CD19-positive in tutto il corpo, nel sangue e nei tessuti, quindi consente una deplezione delle cellule B davvero profonda».
Tuttavia le CAR T richiedono costi e competenze di livello elevato, due possibili fattori limitanti. Anche se la terapia venisse utilizzata in alcuni centri nei paesi più sviluppati, non sarebbe fattibile nelle nazioni più povere, ha sottolineato Isenberg, pertanto è necessario identificare altri modi efficaci e più accessibili per trattare il lupus, come gli anticorpi monoclonali bispecifici in grado di legare due bersagli diversi, uno sulla cellula B e uno sulla cellula T.
Duplice blocco delle cellule B con ianalumab
Un’altra via potrebbe essere lo sviluppo di agenti più potenti per la deplezione delle cellule B, ha riferito Nancy Agmon-Levin, responsabile della Clinical Immunology, Angioedema and Allergy Unit presso la Lupus and Autoimmune Diseases Clinic del Sheba Medical Center di Tel Aviv, Israele.
Ha presentato i dati relativi a 67 pazienti con lupus che avevano partecipato a uno studio multicentrico di fase II con ianalumab, un anticorpo monoclonale che determina un duplice blocco della linea cellulare B. Il farmaco ha come bersaglio il recettore del fattore di attivazione delle cellule B (BAFFR) ma, a differenza di altri agenti mirati allo stesso target, ha una Fc modificata che può più facilmente innescare la citotossicità cellulare dipendente dagli anticorpi.
«Questa è una terapia di deplezione delle cellule B, ma blocca anche la sopravvivenza delle cellule B mediata dal BAFFR, influenzando così il successivo processo di recupero delle cellule B che esprimono il BAFFR e portando a una deplezione continua delle cellule B» ha detto Agmon-Levin.
Lo studio di fase II in questione consisteva in un periodo iniziale di 28 settimane in doppio cieco, durante il quale i partecipanti erano stati assegnati in modo casuale a ricevere iniezioni sottocutanee di ianalumab 300 mg o placebo ogni 4 settimane. Questa prima fase è stata seguita da un periodo di 24 settimane in aperto in cui tutti i pazienti sono stati trattati con ianalumab, e successivamente da un periodo di follow-up senza trattamento fino a 68 settimane, con una raccolta dati continua per le analisi di sicurezza.
L’endpoint primario, un dato composito di soddisfacimento dei criteri per l’SLE Responder Index 4 e di riduzione sostenuta nell’uso di corticosteroidi a 28 settimane, è stato raggiunto da 15 dei 34 (44,1%) pazienti trattati con ianalumab rispetto a solo 3 (9,1%) dei 33 sottoposti a placebo. L’effetto si è mantenuto fino alla fine del periodo in aperto, a 1 anno, in 15 (45,5%) dei 33 partecipanti che avevano continuato il trattamento attivo ed è stato raggiunto da 13 (40,6%) dei 32 soggetti passati dal placebo a ianalumab.
I potenziali benefici del farmaco nel trattamento del lupus e della nefrite lupica saranno ulteriormente valutati negli studi di fase III SIRIUS-SLE1, SIRIUS-SLE2 e SIRIUS-LN, i cui risultati iniziali dovrebbero essere disponibili nel 2027.
Targeting delle plasmacellule con daratumumab
Un altro farmaco che sembra essere utile nel lupus è daratumumab, un anticorpo anti-CD38 umano che esaurisce in modo efficiente le plasmacellule. È già stato approvato per il trattamento del mieloma multiplo e il suo utilizzo nel lupus è supportato da due segnalazioni di casi, ha fatto presente Tobias Alexander della Charité – Universitätsmedizin Berlin, Berlino.
La prima segnalazione, pubblicata nel 2020 sul NEJM, ha coinvolto due pazienti con lupus grave e potenzialmente letale ai quali il farmaco è stato somministrato off-label per un periodo di 4 settimane, con buone risposte cliniche e sierologiche. Il secondo, pubblicato nel 2023 su Nature Medicine, ha coinvolto sei pazienti con nefrite lupica refrattaria, cinque dei quali hanno ottenuto una risposta clinica a 6 mesi.
Su queste basi, il team guidato da Alexander ha condotto lo studio di fase II DARALUP, proof-of-concept, in aperto e monocentrico, che ha coinvolto 10 pazienti di sesso femminile di età compresa tra 24 e 43 anni con punteggio basale mediano del Systemic Lupus Erythematosus Disease Activity Index 2000 (SLEDAI-2K) pari a 12 (da 8 a 20) e un numero di terapie precedenti che variava da due a nove.
Daratumumab è stato somministrato a una dose di 1.800 mg tramite iniezione sottocutanea ogni settimana per 8 settimane, la stessa dose utilizzata per trattare il mieloma multiplo. Come ha riferito Alexander, c’è stato un effetto importante e significativo di riduzione dei livelli di anticorpi anti-dsDNA, diminuiti da un livello mediano di 166,3 U/ml al basale a 61,1 U/ml alla settimana 12 (P=0,002). Parallelamente è stata osservata una riduzione del punteggio SLEDAI-2K da 12 a 4 entro 12 settimane, che si è mantenuta alla valutazione di follow-up a 36 settimane. Sono stati osservati anche miglioramenti nella pelle, nelle articolazioni, nei reni e nel livello di proteinuria.
Tutti i pazienti hanno manifestato eventi avversi, ma nessuno grave. Infezioni e infestazioni (principalmente rinofaringite, COVID-19 e gastroenterite) sono state le più comuni, riscontrate dall’80% dei partecipanti. Il 70% ha avuto reazioni al sito di iniezione o fatigue, il 60% sintomi gastrointestinali, il 50% un calo delle IgG < 5 g/l, il 40% cefalea il 20% mal di schiena.
«Questo è uno studio positivo. Credo che potremmo dimostrare che daratumumab ha prodotto miglioramenti clinici molto rilevanti, rapidi e duraturi» ha commentato Alexander. «Riteniamo che il targeting di CD38 sia rilevante. Le plasmacellule erano state esaurite in base alla riduzione degli anticorpi anti-dsDNA».
Un nuovo meccanismo d’azione con KPG-818
Al congresso sono stati presentati i risultati positivi di un altro studio di fase II che coinvolge KPG-818. Con un meccanismo d’azione completamente diverso, il farmaco sperimentale modula CRBN, determinando così la degradazione di due fattori di trascrizione (Aiolos e Ikaros) che sono coinvolti nello sviluppo, nella maturazione e nella proliferazione delle cellule immunitarie innate e adattative e sono stati collegati al rischio genetico nel lupus.
Attualmente KPG-818 è in fase di sviluppo per il trattamento del lupus, della malattia di Behçet, della malattia infiammatoria intestinale, del mieloma multiplo e del linfoma non-Hodgkin. Dosi orali di 0,15 o 0,6 mg hanno prodotto cambiamenti immunomodulatori che potrebbero essere di beneficio nelle persone con lupus in un periodo di trattamento di 12 settimane, con una tollerabilità generalmente buona.
È forte la necessità di nuove opzioni teraputiche
Isenberg ha dichiarato che sia daratumumab che KPG-818 sarebbero aggiunte gradite come opzioni di trattamento, se il loro valore venisse confermato da ulteriori studi.
«La grande frustrazione per il lupus è che, rispetto ai pazienti con artrite reumatoide, la scelta terapeutica è stata molto limitata. A parte rituximab e belimumab, che vengono utilizzati con alcune restrizioni, non ci sono altri trattamenti biologici mirati disponibili nel Regno Unito» ha detto. «Se le nuove molecole funzioneranno, sarà fantastico. Sarebbe bello avere la possibilità di scegliere. Non so se saranno efficaci quanto rituximab, ma questi primi risultati sono molto incoraggianti».
«Tuttavia si tratta ancora di studi di fase II, e il grande problema è che questi risultati positivi non sempre si traducono nella fase III» ha osservato D’Cruz. «In passato, tranne gli studi con belimumab e anifrolumab, circa 25-30 sperimentazioni su nuovi approcci terapeutici hanno tutte fallito. Questi farmaci avevano funzionato ed erano risultati generalmente sicuri nelle sperimentazioni di fase I e II, ma quando arrivano alla fase III sembrano tutti fallire e non sappiamo perché».