Monica Cristina Storini, associata di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, pubblica “Umana cosa”
Nel panorama critico italiano si registra una certa resistenza a guardare alla scrittura di Boccaccio attraverso la lente, accreditata ormai da più di trent’anni, degli Studi di Genere – che si ritengono adatti a decostruire la scrittura contemporanea (o, meglio, circostante) piuttosto che quella antica –, a differenza di quanto è avvenuto e avviene in area anglosassone e, più specificatamente, statunitense, dove la descrizione del ruolo rappresentato dalla sessualità, dal femminile e dal maschile e così via, nell’opera del Certaldese, è tema particolarmente ricorrente. Il volume che si propone vuole, al contrario, dimostrare come tale prospettiva possa essere particolarmente proficua per interpretare e comprendere pienamente il valore di quella parte del Decameron che la critica ha liquidato come la più ossequiosa della tradizione e, dunque, come quella – tranne l’eccezione di poche novelle – meno felice e riuscita della silloge boccacciana, coincidente con le narrazioni dominate dall’azione contrastante del Caso e della Fortuna. Inquadrando la poetica boccacciana all’interno di una visione in cui compassione per le peripezie umane, importanza dell’intelligenza e potere della parola sono strettamente legati, lo studio mette in luce come l’avventura sia nel Decameron un vero e proprio tema queer. L’incontro/scontro con essa pone, infatti, il soggetto in una situazione di fluidità, di rinuncia – temporanea, più o meno lunga – al proprio status – di genere, di classe sociale, di condizione sentimentale –, lungo una durata temporale – di natura “patologica” – che comporta la messa in discussione e la ridefinizione dell’individualità che vi prende parte, anche suo malgrado, costringendola a ridefinire ruoli e stereotipi, obbligandola alla “fluidità”, sebbene approdi – ma, per quello che possiamo sapere, forse solo momentaneamente – a uno status normato e normalizzato, all’interno di una società, la quale, si badi bene, non coincide più – o non coincide del tutto –, dopo il flagello della peste, con quella che l’ha preceduta. Oltre alla mobilità identitaria, l’avventura possiede poi un ulteriore elemento queer, vale a dire presuppone e richiede una dimensione collettiva di risoluzione e riconoscimento identitario. A ciò obbedisce la compassione, soprattutto delle donne, vera e propria empatia che può scattare soltanto se e quando l’avventura dismette il proprio aspetto queer e diviene narrazione, stabile, certa, normata.