La medaglia d’oro dell’ESC assegnata a Peter J. Schwartz


Al Congresso Europeo di Cardiologia ESC Peter J. Schwartz è stato premiato con la medaglia d’oro dell’ESC, il più alto riconoscimento di questa importante società scientifica

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La morte improvvisa e inspiegabile di una giovane durante la diretta televisiva della trasmissione Rischiatutto nel lontano 1970, è diventato l’inizio di una ricerca scientifica che è durata tutta la vita su una patologia cardiaca non comune che se non curata causa morte improvvisa. Tantissime oggi le persone che devono la propria vita al professor Peter Schwartz, che ha dedicato la sua carriera allo studio della Sindrome del QT lungo, iniziando proprio da quel tragico episodio di tanti anni fa.

Con oltre mezzo secolo di ricerca alle spalle, il professor Schwartz (Istituto Auxologico Italiano IRCCS – Milano, Italia) è uno dei massimi esperti mondiali del rapporto tra il sistema nervoso autonomo e le patologie cardiache potenzialmente letali, in particolare la sindrome del QT lungo (LQTS), un’area in cui il suo lavoro ha rivoluzionato la cura dei pazienti.

Al congresso europeo di cardiologia, l’ESC che si è appena concluso, queste ricerche e questo impegno sono stati premiati con la medaglia d’ordo dell’ESC, il più alto riconoscimento di questa importante società scientifica che ogni anno viene assegnato a tre clinici o ricercatori.

Cosa l’ha spinta a specializzarsi nella ricerca cardiologica?
Probabilmente è stato il caso di aver iniziato a lavorare come studente di medicina in un reparto che era leader mondiale negli studi sul sistema nervoso autonomo. È stato emozionante e stimolante. Al mattino curavo i pazienti e al pomeriggio registravo l’attività di singole fibre nei nervi cardiaci dei gatti. Questa doppia cultura – con i pazienti che fornivano le domande e il laboratorio che offriva le risposte – è stata fondamentale per il mio approccio, che consiste nel collegare sempre le questioni cliniche alla scienza di base.

Quali sono i principali risultati della sua carriera fino ad oggi?
Avendo lavorato sulla LQTS dal 1971, quando ancora si sapeva poco, l’elenco non è breve. Nel 1975, come “esordiente” di 32 anni, scrivendo il mio primo articolo di revisione sulla LQTS, ho affermato con coraggio che i beta-bloccanti erano la scelta terapeutica. Oggi tutti lo sanno, ma 50 anni fa c’era grande incertezza su come trattare questi pazienti.

Nel 1979, insieme ad Arthur Moss dell’University of Rochester Medical Center, negli Stati Uniti, abbiamo creato il Registro Internazionale per la LQTS, che allora si pensava fosse una malattia rara, anche se oggi sappiamo che colpisce almeno una persona su 2.000. Da allora, il registro ha fornito dati fondamentali sulla storia naturale della malattia e sulla sua risposta alla terapia. In particolare, a due decenni dalla sua istituzione, ha fornito ai biologi molecolari i grandi pedigree di individui chiaramente affetti e non affetti che sono stati essenziali per la scoperta dei primi geni associati alla sindrome.

Sempre alla fine degli anni ’70, con una serie di studi sperimentali, ho fornito il razionale per l’uso della denervazione del simpatico cardiaco sinistro nei pazienti con LQTS ad alto rischio. Questo approccio chirurgico è diventato da allora uno strumento terapeutico fondamentale, utilizzato nei principali centri di tutto il mondo per ridurre la necessità di un defibrillatore cardiaco impiantabile (ICD).

Nel 1995, dopo la scoperta dei primi geni LQTS, con il mio gruppo ho introdotto il concetto di terapia gene-specifica, utilizzando il bloccante dei canali del sodio mexiletina, che è diventato un trattamento standard per i pazienti LQT3.

Alcuni anni dopo, nel 2001, ho documentato l’esistenza di una correlazione genotipo-fenotipo specifica per i fattori scatenanti delle aritmie potenzialmente letali, e questo ha portato alle prime raccomandazioni per una gestione gene-specifica a complemento della terapia tradizionale per i diversi tipi di LQTS. Ad esempio, è emerso chiaramente che i rumori forti al mattino presto creavano un rischio maggiore per i pazienti LQT2, mentre i pazienti LQT1 erano più a rischio durante lo stress fisico o emotivo e durante il nuoto.

Su cosa sta lavorando attualmente?
Negli ultimi 20 anni, il mio lavoro si è concentrato sullo studio dei geni modificatori, varianti genetiche comuni che possono influenzare il rischio di sviluppare un arresto cardiaco nei pazienti con LQTS. Attualmente stiamo cercando di capire come funzionano le varianti protettive, in modo da poter sfruttare questo meccanismo d’azione nella ricerca di nuove terapie. Un’altra area chiave per me è la sensibilizzazione sul valore del trattamento conservativo dei pazienti con LQTS. La nostra esperienza dimostra che la stragrande maggioranza dei pazienti – se valutata annualmente per ottimizzare la terapia – può essere protetta in modo sicuro ed efficace utilizzando i trattamenti di cui già disponiamo e che raramente è necessario ricorrere all’ICD, che può avere un impatto negativo sulla qualità della vita.

Che messaggio vuole dare ai giovani cardiologi? 
La ricerca è competitiva e impegnativa. Non vale la pena di prendere le vie di mezzo: non siate timidi, puntate in alto!