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Infarto del miocardio: nuovo studio su stop a trattamento con beta bloccanti

Dopo un infarto miocardico l'aggiunta dell'inibitore PCSK9 alirocumab alla terapia con statine ad alta intensità migliora la regressione e la stabilizzazione della placca coronarica

In pazienti con un infarto del miocardio (MI) pregresso, l’interruzione del trattamento a lungo termine con β-bloccanti (βB) sembra esporre a rischi maggiori di safety

In pazienti con un infarto del miocardio (MI) pregresso, l’interruzione del trattamento a lungo termine con β-bloccanti (βB) sembra esporre a rischi maggiori di safety, rispetto ad una strategia di continuazione del trattamento con questi farmaci, come dimostrano i dati relativi ad un outcome primario composito di morte, MI, ictus o ricovero per cause cardiovascolari (CV).

Inoltre, l’interruzione del trattamento con βB non comporta un miglioramento della qualità di vita dei pazienti e ha determinato un innalzamento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca a riposo e un tasso più elevato di ospedalizzazione per motivi CV.

Questo il responso, in parte inatteso, proveniente dallo studio ABYSS (Assessment of βeta blocker interruption one Year after an uncomplicated myocardial infarctionon Safety and Symptomatic cardiac events requiring hospitalization), presentato al recente congresso della European Society of Cardiology e contemporaneamente pubblicato su NEJM (1).

I presupposti e gli obiettivi dello studio
“I miglioramenti nella gestione dell’infarto acuto del miocardio’ (AMI) e i dati degli studi osservazionali hanno portato i cardiologi a chiedersi se sia necessario continuare il trattamento con  beta-bloccanti dopo un anno dall’evento, dato che è noto che un trattamento non necessario può provocare effetti collaterali – hanno ricordato i ricercatori nella presentazione dello studio al congresso”.

Già prima dello studio ABYSS, altri studi avevano messo in discussione l’impiego dei beta-bloccanti nell’era moderna della cura post-MI. Per fare alcuni esempi: all’inizio di quest’anno, i ricercatori dello studio REDUCE-AMI (2) avevano dimostrato che l’impiego a lungo termine di beta-bloccanti in pazienti con AMI e frazione di eiezione conservata non riduceva la mortalità o il rischio di insorgenza di nuovi attacchi cardiaci.

Gli studi osservazionali, invece, hanno dato risultati contrastanti. Alcuni di questi, tra cui lo studio REACH (3) e lo studio CLARIFY (4), non avevano documentato alcun beneficio dei beta-bloccanti se somministrati in aggiunta alla terapia medica attuale, mentre un altro ha dimostrato che l’interruzione dei beta-bloccanti oltre 1 anno dopo AMI era associata ad un aumento della mortalità o del rischio di ri-ospedalizzazione per sindrome coronarica acuta (ACS) (5).

Le linee guida Usa raccomandano ai medici di iniziare l’assunzione di beta-bloccanti nei pazienti con STEMI (raccomandazione di classe I, livello di evidenza B) e nei pazienti con ACS NSTE senza funzione sistolica compromessa (classe IIa, livello di evidenza C (6)). Tuttavia, le linee guida statunitensi per la gestione della malattia coronarica cronica, aggiornate proprio l’anno scorso (7), affermano che è ragionevole rivalutare la necessità dell’uso di beta-bloccanti a lungo termine (oltre 1 anno) nei pazienti post-MI per ridurre il rischio di eventi cardiovascolari principali (MACE) [classe IIb, livello di evidenza B].

Le linee guida europee 2024 per la gestione della sindrome coronarica cronica, recentemente pubblicate sull’European Heart Journal (8), riconoscono che esiste una lacuna di evidenze quando si considera il beneficio a lungo termine della terapia con beta-bloccanti nei pazienti post-MI.

Tutto questo dimostra che il dibattito sulla durata della terapia con beta-bloccanti nei pazienti con MI con LVEF conservata è tutt’altro che concluso.

Su questi presupposti è stato concepito dai ricercatori dell’ACTION Group (un gruppo che riunisce professionisti, pazienti e decisori pubblici con l’obiettivo di promuovere la conoscenza, l’informazione, la formazione, la prevenzione e la ricerca sulle malattie cardiovascolari) lo studio ABLYSS, un trial randomizzato, in aperto, di non inferiorità, che si è proposto l’obiettivo di valutare la correttezza dell’ipotesi della sicurezza dal punto di vista clinica e del beneficio (in termini di miglioramento della qualità della cita dei pazienti) derivante dall’interruzione della terapia con beta-bloccanti in pazienti con una storia di MI e una LVEF conservata (>40%).

Disegno dello studio
I ricercatori hanno incluso nello studio pazienti con un precedente MI che assumevano beta-bloccanti a lungo termine, con una frazione di eiezione ventricolare sinistra pari almeno al 40% e nessun evento cardiovascolare documentato nei 6 mesi precedenti. Questi sono stati randomizzati, secondo uno schema 1:1 all’interruzione o al proseguimento della terapia con β-bloccanti.

L’endpoint primario era un composito di morte, AMI non fatale, ictus non fatale o ospedalizzazione per motivi cardiovascolari al follow-up più lungo (minimo, 1 anno), secondo un’analisi di non inferiorità (definita come una differenza assoluta tra i gruppi <3 punti percentuali per il limite superiore dell’ intervallo di confidenza [IC] al 95% a due lati).

Il principale endpoint secondario era rappresentato dalla variazione della qualità di vita misurata dal questionario European Quality of Life-5 Dimensions.

In totale sono stati randomizzati 3.698 pazienti in cura presso 49 strutture dislocate sul territorio francese. L’età media dei pazienti era di 64 anni e il 17% di questi era di sesso femminile. Il tempo mediano tra l’ultimo evento di MI e la randomizzazione era di 2,9 anni (intervallo inter quartile: 1,2-6,4 anni).

Risultati principali
Nel corso di un follow-up mediano di 3 anni, l’interruzione del trattamento beta-bloccante a lungo termine non ha soddisfatto le condizioni di non-inferiorità statistica del trial rispetto alla continuazione del beta-bloccante.
Nello specifico, il 23,8% dei pazienti del gruppo di interruzione del trattamento beta-bloccante e il 21,1% dei pazienti del gruppo di continuazione sono andati incontro allo sviluppo di almeno un evento intercettato dall’outcome primario composito (differenza di rischio: di 2,8%; IC95%: 0,1-5,5, con un hazard ratio pari a 1,16 (IC95%: 1,01-1,33; p=0,44 per la non inferiorità).

In un’analisi di sottogruppo che ha preso in considerazione i pazienti dello studio con ipertensione (43% sul totale dei partecipanti), si è registrato anche un incremento dell’endpoint primario tra coloro che avevano interrotto il trattamento con beta-bloccante.

Per quanto riguarda l’endpoint secondario di morte, MI, ictus e ricovero per HF, i tassi sono stati, rispettivamente, del 10,0% e dell’8,9% per coloro che avevano interrotto e continuato la terapia con beta-bloccanti. A tal proposito, i ricercatori hanno sottolineato come, in questo caso, non vi fossero inizialmente differenze significative, anche se le curve hanno cominciato a divergere con l’andar del tempo.

La mortalità per tutte le cause si è verificata nel 4,1% e nel 4% dei pazienti che avevano interrotto e continuato la terapia con beta-bloccanti, rispettivamente, mentre l’infarto si è verificato nel 2,5% e nel 2,4%, rispettivamente. I tassi di ictus sono stati identici, pari all’1%, sia nei soggetti che avevano interrotto che in quelli che avevano continuato la terapia con beta-bloccanti.

La qualità della vita, valutata a 6 mesi con il punteggio EQ-5D, è risultata simile nei due gruppi. A tal proposito, i ricercatori hanno affermato di aspettarsi di vedere un miglioramento della qualità di vita molto presto, forse già dopo 1 settimana, dopo la sospensione del trattamento con beta-bloccanti, dati gli effetti collaterali associati a questi farmaci, ma che questo non si è mai verificato.

Da ultimo, considerando i pazienti che avevano interrotto il trattamento con beta-bloccanti, è emerso che la frequenza cardiaca risultava più elevata di circa 10 battiti al minuto (bpm) rispetto ai pazienti che avevano continuato il trattamento, mentre la pressione arteriosa è aumentata di 3,7/3,9 mm Hg (P < 0,001 per entrambi). Questo aumento, hanno suggerito i ricercatori, potrebbe avere implicazioni cliniche significative con un follow-up a più lungo termine.

Commento allo studio
Nel commentare I risultati alla fine della presentazione dei dati al congresso, la professoressa Johanne Silvain dell’Università della Sorbona di Parigi (Francia), ricercatrice principale dello studio ABYSS, ha concluso: “Le differenze tra i gruppi per quanto riguarda l’ospedalizzazione per motivi cardiovascolari e l’effetto negativo sui livelli di pressione arteriosa, insieme all’assenza di miglioramenti della qualità di vita, non supportano l’interruzione del trattamento cronico con beta-bloccanti nei pazienti post-MI”.

Questi risultati devono essere contestualizzati alla luce dei recenti risultati dello studio in aperto REDUCE-MI e con gli studi ancora in corso per fornire ulteriori prove sull’uso ottimale dei beta-bloccanti dopo AMI.

Nell’editoriale di accompagnamento al lavoro pubblicato su NEJM (9) in concomitanza con la presentazione dello studio al congresso, l’estensore del commento (ricercatore senior dello studio REDUCE-AMI) ha voluto ricordare che gli studi che hanno dimostrato i benefici dei beta-bloccanti dopo AMI sono stati condotti più di 50 anni fa, relativi ad eventi infartuali di grandi dimensioni avvenuti prima dell’avvento della moderna diagnosi di MI basata su biomarcatori, della rivascolarizzazione con PCI e della gestione medica con statine, terapia antitrombotica e ACE-inibitori/ARB.

Ciò premesso, l’editorialista riconosce che l’interruzione dei beta-bloccanti potrebbe essere ancora associata ad un rischio più elevato di ricovero ospedaliero per motivi legati all’angina, ma interpreta i due studi come largamente favorevoli all’interruzione del trattamento senza comportare rischi maggiori di morte, MI o ictus. Tuttavia, è prudente attendere il completamento di altri studi randomizzati sui beta-bloccanti dopo l’IMA prima di modificare le linee guida cliniche.

Bibliografia
1) Silvain J  et al. Beta-blocker interruption or continuation after myocardial infarction. N Engl J Med. 2024;Epub ahead of print.
2) Yndigegn T et al. Beta-blockers after myocardial infarction and preserved ejection fraction. N Engl J Med. 2024;390:1372–1381.
3) Bangalore S et al. β-Blocker Use and Clinical Outcomes in Stable Outpatients With and Without Coronary Artery Disease. JAMA. 2012;308(13):1340-1349. doi:10.1001/jama.2012.12559
4) Sorbets E. CLARIFY: first-line anti-ischemic agents use and long-term clinical outcomes in stable coronary artery disease. Presented at: ESC Congress 2018. August 24, 2018. Munich, Germany.
5) Neumann A et al. Clinical Events After Discontinuation of β‐Blockers in Patients Without Heart Failure Optimally Treated After Acute Myocardial Infarction: A Cohort Study on the French Healthcare Databases. Circulation: Cardiovascular Quality and Outcomes. Volume 11, Number 4
6) O’Gara PT et al. 2013 ACCF/AHA Guideline for the Management of ST-Elevation Myocardial Infarction: Executive Summary: A Report of the American College of Cardiology Foundation/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. Circulation Volume 127, Number 4
7) Virani SS et al. 2023 AHA/ACC/ACCP/ASPC/NLA/PCNA guidelines for the management of patients with chronic coronary disease: a report of the American Heart Association/American College of Cardiology joint committee on clinical practice guidelines. Circulation. 2023;Epub ahead of print.
8) Vrints C et al. 2024 ESC Guidelines for the management of chronic coronary syndromes: Developed by the task force for the management of chronic coronary syndromes of the European Society of Cardiology (ESC) Endorsed by the European Association for Cardio-Thoracic Surgery (EACTS). European Heart Journal, ehae177, https://doi.org/10.1093/eurheartj/ehae177
9) Jernberg T. Routine beta-blockers in secondary prevention—approaching retirement? N Engl J Med. 2024;Epub ahead of print.

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