L’atresia biliare è una malattia in cui la precocità dell’intervento fa la differenza, ma c’è ancora scarsa informazione spiega il professor Claudio Romano, presidente SIGENP
L’atresia biliare è una delle più gravi malattie che possano colpire un neonato. Per motivi ancora non noti, le vie biliari vanno incontro a un processo infiammatorio progressivo che le distrugge, e così bilirubina e sali biliari si accumulano nel fegato, da dove passano nel sangue e in altri organi provocando danni devastanti. Certamente rara, si parla di un caso ogni 12-15000 nati, ma letale, in assenza di cure specialistiche. Oggi però si può curare e, in un buon numero di casi, in modo del tutto soddisfacente. Esiste una sofisticata tecnica chirurgica chiamata procedura di Kasai, un intervento che, praticato sui neonati, crea un collegamento tra fegato e intestino tenue per supplire alle vie naturali – ormai irrecuperabili – per far defluire la bile. Ma ha probabilità di successo se eseguito in tempo, entro i 60 giorni di vita. E questo significa scoprire la malattia poco dopo la nascita. Dopo, ma comunque entro i due anni, c’è solo il trapianto di fegato. Non è la soluzione finale, perché si può parlare di “guarigione” definitiva in poco più della metà dei casi, anche nelle condizioni migliori. Per ora; ma naturalmente le tecniche progrediscono.
In Italia si può affrontare questa patologia nel modo migliore: dal 2011 tutti i casi vengono annotati in un registro nazionale, e dal 2018, grazie all’attività del Network italiano SIGENP per lo studio dell’atresia delle vie biliari, esiste la possibilità di coordinare i 13 centri di alta specializzazione e raccogliere dati sui pazienti affetti. Tuttavia rispetto agli altri
Paesi europei, la percentuale di guarigione, o più correttamente di sopravvivenza con fegato nativo a cinque anni, è inferiore. Lo rivela uno studio compiuto da un gruppo di ricerca del network italiano SIGENP (Brescia, Roma, Palermo, Salerno, Bergamo). Si tratta di un’analisi retrospettiva su 254 casi italiani diagnosticati e trattati nell’arco di dieci anni, dal 2011 al 2021. La sopravvivenza a cinque anni con fegato nativo dei pazienti curati con la procedura di Kasai (collegamento con l’intestino tenue) in Italia è stata del 35,4% ; mentre in Francia del 41,2%, in Inghilterra del 51,3%, nei Paesi bassi del 46%, Paesi Scandinavi del 55%, in Svizzera del 37,4. Siamo gli ultimi.
Come mai? Perché il successo di queste terapie è tanto maggiore quanto minore è il danno che è già stato subito dal fegato. Quindi se si interviene su un fegato ancora poco danneggiato le possibilità di risoluzione sono alte; ma si riducono man mano che il tempo passa e il danno si aggrava. Tant’è vero che, tornando allo studio citato, tra i casi italiani il successo a cinque anni diventa del 48,9% (anziche del 35,4) quando l’intervento viene eseguito prima dei 40 giorni di età. Insomma: se in Italia abbiamo risultati meno buoni è perché le diagnosi sono tardive e gli interventi in età troppo “avanzata”
Dunque è chiara la sfida che i pediatri epatologi devono affrontare: riuscire a diagnosticare l’atresia biliare il più presto possibile. “Il sospetto precoce e quindi l’abbassamento dell’età alla diagnosi” dice il dottor Angelo Di Giorgio, dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, “sono la chiave per migliorare gli esiti dei neonati con atresia biliare in Italia. E’ un obbiettivo possibile, se c’è conoscenza della malattia: i genitori che osservano la persistenza dell’ittero oltre le due settimane di vita, l’emissione di feci ipo-acoliche cioè grigie o biancastre e di urine scure devono rivolgersi subito al proprio pediatra e ad un centro specializzato”.
“L’indicazione che ci fornisce questo studio retrospettivo è chiara” conclude il professor Claudio Romano, Ordinario di Pediatria all’Università di Messina e Presidente SIGENP, “I nostri centri specialistici sono assolutamente all’avanguardia, malgrado questa sia una malattia difficile, non ancora sempre dominabile. Ma occorre che i medici sul territorio e i genitori siano meglio informati per accorgersi tempestivamente dei segni della malattia e rivolgersi agli specialisti”.