In libreria la biografia di Benjamin Jacobs scritta da lui stesso e accolta con favore unanime della critica negli Stati Uniti
«I nostri nomi diventarono numero. E con il tempo capimmo perché. I numeri non avevano volto. Erano molto più facili da affrontare».
Il 5 maggio 1941 tre vecchi camion attraversano una strada sterrata polacca con a bordo centosettanta ebrei del villaggio di Dobra. Sono uomini di età compresa tra i sedici e i sessant’anni. Tra loro anche Berek Jakubowicz e suo padre, autorizzati a portare con sé solo un piccolo fagotto ciascuno. Il ragazzo non sa che quei pochi strumenti odontoiatrici utilizzati nel primo anno di formazione universitaria gli salveranno la vita.
La sua storia viene narrata dai lui stesso nel libro Il dentista di Auschwitz, firmato con il nuovo nome (Benjamin Jacobs) assunto negli Stati Uniti, dove emigrò dopo la liberazione (Bibliotheka, 376 pagine, 16 euro, dal 10 gennaio in libreria nella traduzione di Alessandro Pugliese). Nei cinque anni di privazioni trascorsi nei campi di sterminio nazisti, tra cui Buchenwald, Dora-Mittelbau, e Auschwitz (dove entrò in contatto con il famigerato Josef Mengele, medico e criminale di guerra), ha visto morire il padre ed è stato costretto ad esercitare la professione dentistica su prigionieri e ufficiali e ad estrarre i denti d’oro dei cadaveri appena usciti dalle camere a gas
Accolto con favore unanime dalla critica alla sua comparsa negli Stati Uniti, Il dentista di Auschwitz indaga sulla proliferazione del male dalla prospettiva di chi ha vissuto a stretto contatto con un orrore assoluto e onnipervasivo. Una lettura che meglio di qualsiasi libro di storia riesce a rendere un tempo in cui «i nomi divennero numeri senza volto» e in cui chi subì la deportazione «pur avendo il cuore pieno di lacrime, dimenticò per sempre come piangere».