Tre giovani carabinieri furono uccisi dalla banda della Uno Bianca la sera del 4 gennaio 1991. L’inchiesta è stata riaperta per trovare mandanti e complici
Quella del Pilastro fu una “strage esemplare”, premeditata e non casuale, per infliggere “un colpo allo Stato”. Ne sono convinti i familiari dei tre giovani carabinieri uccisi dalla banda della Uno Bianca la sera del 4 gennaio 1991, di cui oggi ricorre il 34esimo anniversario, come sempre ricordato a Bologna con una commemorazione in via Casini, luogo dell’assalto ai militari. Quell’eccidio, così come le altre azioni dei fratelli Savi, restano ancora oggi pieni “di ombre, di false testimonianze e di inquietanti depistaggi- scrivono i familiari di Mauro Mitilini, Mauro Moneta e Otello Stefanini in una nota diffusa oggi- emblematico fu quello compiuto dal brigadiere dei Carabinieri Macauda sul duplice omicidio di Castel Maggiore e di cui ancora non conosciamo la motivazione”. Non sono poi “mancati errori giudiziari con false piste investigative accompagnate delle puntuali rivendicazioni della famigerata Falange Armata”, aggiungono i familiari, che grazie a un esposto depositato nel 2023 hanno fatto sì che la Procura di Bologna riaprisse le indagini, tuttora in corso, per scoprire eventuali complici e mandanti della banda. “Da tempo avevamo chiesto verità senza aver avuto risposta- affermano i familiari- motivo per cui, lo scorso anno, insieme ad alcuni familiari delle vittime, abbiamo presentato un esposto grazie agli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser”.
‘STRAGE PILASTRO’, ECCO I MISTERI ANCORA DA RISOLVERE
Secondo i parenti delle vittime, “tanti sono i lati oscuri da chiarire di questi sette anni di terrore, come per la strage del Pilastro. Un agguato premeditato in ogni dettaglio, ‘una trappola’ la definì uno dei Savi nel corso di un interrogatorio”. I tre giovani carabinieri quella sera dovevano essere di “vigilanza fissa, come disposto dall’allora Questore con un’ordinanza di servizio” davanti alle Scuole Romagnoli, dove era alloggiato un gruppo di stranieri. “Del perché i Carabinieri lasciarono il delicato obiettivo da vigilare per recarsi lontano in via Casini, dove avvenne l’agguato e posto completamente fuori dalla vista della scuola che dovevano presidiare, sembrerebbe un mistero- affermano i familiari-. Si cercò di comprendere le ragioni del perché si erano spostati e se quell’allontanamento fu determinato da un ordine superiore, cercando un riscontro nell’ordine di servizio della pattuglia, ma quel documento non fu mai rinvenuto, come era accaduto per l’omicidio dei carabinieri Stasi e Erriu (uccisi dalla Uno Bianca a Castel Maggiore, ndr) rispetto gli ordini di servizio relativi ai giorni precedenti la loro morte, anch’essi spariti nel nulla”. Secondo i familiari, i tre carabinieri “non avrebbero mai abbandonato spontaneamente la vigilanza alla scuola Romagnoli, violando una consegna che avrebbe comportato anche una loro responsabilità per un eventuale attentato alla porta della scuola in loro assenza, come era già avvenuto alcuni giorni prima con una bomba molotov. Un’ipotesi assurda, se si considera anche il clima di allora caratterizzato da violenti agguati ai vicini campi nomadi”. Quella sera del 4 gennaio, tra l’altro, “per una strabiliante combinazione- sottolineano i parenti delle vittime- tutte le pattuglie di polizia e carabinieri furono allontanate dal quartiere con interventi sui quali abbiamo chiesto approfondimenti“.
Quello del Pilastro, sostengono dunque i familiari dei tre militari uccisi, fu “un agguato premeditato, certamente non indirizzato a impadronirsi delle armi dei giovani carabinieri trucidati, armi che peraltro non furono sottratte. I killer erano travisati e muniti di potenti armi, avevano già predisposto l’incendio della uno bianca con il kerosene per cancellare le tracce ed un’Alfa 33 con un loro complice alla guida, ad oggi rimasto sconosciuto, che garantì la fuga dei Savi dal quartiere Pilastro. Probabilmente quel tragico incontro non fu casuale”. Secondo i familiari, insomma, “la dinamica della strage sia diversa da quella disegnata dalla corte di Assise del ’97, così come attestato da numerose testimonianze e dalle perizie balistiche“. La prima arma a sparare in via Casini, spiegano i parenti delle vittime, “fu la calibro 38 e non l’AR 70. Un’azione che disarticolò la pattuglia dei Carabinieri colpendo ripetutamente l’autista per poi terminare la loro missione di morte una volta che l’auto dei militari impattò contro alcuni contenitori della nettezza urbana. Proprio uno di questi contenitori, dopo l’impatto, si posizionò di fianco alla portiera dell’autista della pattuglia dei Carabinieri, una condizione che prova l’incompatibilità delle traiettorie e delle tracce dei colpi calibro 38 esplosi sulla fiancata dell’auto dei Carabinieri nella fase finale dell’agguato”.
Secondo i familiari dei tre militari dell’Arma, dunque, “resta un interrogativo inquietante: per quale motivo i poliziotti della banda Savi avevano pianificato un agguato a tre giovani carabinieri? Difficile non pensare, di fronte a tanta efferatezza, caratterizzata da una precisa pianificazione e dalla determinazione ad uccidere, che quella del Pilastro fu una strage esemplare un colpo allo Stato, un’azione con un significato che riporta alla memoria le grandi stragi che hanno insanguinato il nostro Paese”. I parenti delle vittime lamentano di aver incontrato negli anni, sulla strada per trovare la verità, “diffidenza e dichiarazioni depistanti, ma noi continueremo a perseguire il nostro obiettivo per una verità completa. A partire dall’arresto dei Savi che avvenne, secondo l’allora Ministro dell’interno, grazie ad una segnalazione diretta (una notizia confidenziale ). Chi è questo sconosciuto confidente che fece quelle importanti dichiarazioni? Era legato ai Savi?”. I familiari si dicono infine “fiduciosi che il lavoro dalla Procura di Bologna darà i suoi frutti e auspichiamo che il muro di omertà, che aveva ostacolato la ricerca della verità, continui a crollare. Riteniamo, doveroso ricercare le responsabilità sui depistaggi e le connivenze di tutte e 103 le azioni compiute dalla banda della Uno Bianca, lo si deve a tutti i feriti e i caduti di questi sette lunghi anni di terrore, ma soprattutto perché eventuali complici e mandanti ancora liberi rappresenterebbero una seria minaccia per la democrazia del nostro Paese”.
ZUPPI: “LA VENDETTA INQUINA, CHIEDIAMO GIUSTIZIA”
Giustizia e verità, non vendetta. È l’appello per i familiari delle vittime della banda della Uno Bianca lanciato oggi dal cardinale Matteo Zuppi, presidente Cei e arcivescovo di Bologna, nel corso della messa in ricordo dei tre carabinieri uccisi al Pilastro il 4 gennaio 1991. “Cerchiamo speranza, giustizia e futuro- dice Zuppi durante l’omelia- la vendetta molte volte inquina, incattivisce e non sazia. Per questo chiediamo giustizia”. Giustizia che serve per trovare la verità sulle “trame di un male vigliacco- afferma il cardinale- perchè commesso dietro l’impunità della divisa che è stata infangata. E questo provoca sgomento e dolore”. Ma la richiesta di giustizia serve anche a trovare la verità sui “tanti punti oscuri che ancora cerchiamo. E anche questa è una ferita”. Gli assassini della banda della Uno Bianca, afferma ancora Zuppi in un passaggio dell’omelia, “devono accettare la punizione senza sconti ma senza accanimenti, anche davanti a Dio. È questo il fine della pena”.
Quanto a Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, i tre carabinieri uccisi al Pilastro, il loro “testamento è il rispetto per la vita e per i diritti di tutti. La loro è una lezione di patriottismo, di servizio per la sicurezza svolto con professionalità e coscienza”, afferma ancora il cardinale. Ricordare, sottolinea Zuppi, “ci aiuta a vivere con maggiore consapevolezza del presente e per il futuro, perché certe emersioni del male non accadano più. C’è bisogno di tutti. Il male a volte stordisce talmente tanto che ti viene da dire: ma chi me lo fa fare. E si resta isolati. L’unico modo per combattere il male è stare insieme”.
FONTE: AGENZIA DI STAMPA DIRE (WWW.DIRE.IT).